lunedì 19 aprile 2010

Non credenti a difesa della vita

Laici pro-life    di Antonio Marra
Orwell, Bobbio, Ferrara, Baldassarre. Per essere antiabortisti non serve la fede. Basta un briciolo di buon senso.

«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».

Queste parole le pronunciò Norberto Bobbio (nella foto) alla vigilia del referendum sull’aborto del 1981 in conclusione dell’intervista rilasciata a Giulio Nascimbeni e pubblicata sul Corriere della Sera l’8 maggio dello stesso anno.
In quell’occasione, il filosofo, tra i massimi esponenti della cultura laica del dopoguerra, espresse chiaramente la sua netta opposizione all’aborto, a dimostrazione che l'asserzione che i pro-life siano personalmente credenti è stata sempre debole ed immotivata. Eppure tra i laici c’è chi ancora si sorprende quando si trova di fronte un intellettuale del suo mondo impegnato a difendere le ragioni della vita contro il presunto diritto ad abortire. Bobbio, che non parlava volentieri di questo tema, incentrava la sua riflessione sul conflitto tra diritti e doveri. «Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere – spiegava - È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto». La gerarchia tra i diritti è fondamentale per il filosofo laico: «C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite». Ma per Bobbio c’è sempre stato un punto fermo:« Ho parlato di tre diritti: il primo, quello del concepito, è fondamentale; gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati. Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere». Poi le critiche alla 194: «Al primo articolo è detto che lo Stato "garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile". Secondo me, questo diritto ha ragione d'essere soltanto se si afferma e si accetta il dovere di un rapporto sessuale cosciente e responsabile, cioè tra persone consapevoli delle conseguenze del loro atto e pronte ad assumersi gli obblighi che ne derivano. Rinviare la soluzione a concepimento avvenuto, cioè quando le conseguenze che si potevano evitare non sono state evitate, questo mi pare non andare al fondo del problema. Tanto è vero che, nello stesso primo articolo della 194, è scritto subito dopo che l'interruzione della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite». Parole, queste, di un laico che non dimentica la morale. Ad un certo punto, Nascimbeni gli chiede cosa succederebbe se tale legge fosse abrogata. Bobbio risponde: «Il fatto che l'aborto sia diffuso, è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale. E mi stupisce che venga addotto con tanta frequenza. Gli uomini sono come sono: ma la morale e il diritto esistono per questo. Il furto d'auto, ad esempio, è diffuso, quasi impunito: ma questo legittima il furto? Si può al massimo sostenere che siccome l'aborto è diffuso e incontrollabile, lo Stato lo tollera e cerca di regolarlo per limitarne la dannosità. Da questo punto di vista, se la legge 194 fosse bene applicata, potrebbe essere accolta come una legge che risolve un problema umanamente e socialmente rilevante». La posizione di Bobbio non è isolata nel mondo laico. Sono numerosi gli intellettuali non credenti che appartengono al popolo dei pro-life. In passato tali sono stati Gorge Orwell, Nat Hentoff e Kesey, per non menzionare esempi normativi come il giuramento di Ippocrate in medicina o la Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 1948. Per citare qualcuno più vicino a noi in termini di tempo, si possono fare i nomi di Antonio Baldassarre, ex-presidente della Corte Costituzionale o del giornalista Giuliano Ferrara. Il primo scatenò il putiferio, quando disse che "la vita comincia dal concepimento, nessuno è mai riuscito a dimostrare il contrario, e non c'è alcuna differenza biologica nelle varie fasi dello sviluppo dell'embrione. Perciò non riesco a vedere fondato nella Costituzione un diritto senza limiti di libertà della donna di abortire; l'aborto non si può considerare un valore costituzionale". Il secondo è stato uno dei principali protagonisti dell’ultima campagna referendaria, prendendo posizione a favore della difesa della vita. «Giovanni Paolo II ha parlato di una «shoah», ha parlato dell'aborto come di una «strage sistematica» - scrisse non molto tempo fa su “Tempi” il direttore de “Il Foglio” - E, in effetti, se si guardano i dati francesi in trent'anni si scopre che ci sono stati 200 mila aborti l'anno. Mai una curva in diminuzione, mai, in un paese non povero e ignorante ma in un paese supercolto e civilizzato, dove le tecniche anticoncezionali sono sviluppatissime, c'è la pillola del giorno dopo, c'è la RU486 ormai da quindici anni, c'è l'aborto chimico, l'aborto chirurgico. Duecentomila in trent'anni sono 6 milioni». Tutto questo, a dimostrazione che non ci vuole una grande fede per essere antiaboristi: basterebbe soltanto un briciolo di buon senso.
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